Elegie

  • Cinque elegie brevi
    I
    Sapessi il male che soffro, lontano da te, piangeresti.
    Ma non esser felice, se t’abbandoni, e vinci!

    Quando per te patisco mi consola un’altra creatura:
    Suo è il pianto che odo in cuore, quando mi perdo in te.
    II
    Altri saprà, e tu ignori, i cieli che schiude il tuo sguardo
    Altri rapiti regni la tua natura adombra.

    Un’ala ha sfiorato la spenta laguna, si flettono lente
    Nei cerchi d’acqua bruna le luminose nebbie.
    III
    Ora dal sonno l’alito alto dei platani, spenta
    L’ansia che il giorno inquieta arse, ti leva

    Stupita: ritorna ai prati che una volta furono e tenta
    L’anima antica giuochi dimenticati.
    IV
    Non torneremo, lo sai. Leva ancora una volta
    Le dita al raggio breve della gioia tra i rami.

    Presto la sera verrà. Ma quanta luce è raccolta
    Ora nella corona lieve delle tue mani.
    V
    Perditi ormai, caro volto, insieme agli affanni passati
    Dove si perde l’alito di questa notte, l’onda

    Che ascolto quieta dei fiumi; dove discendono gli anni
    Morti, le voci spente. Salirà dagli umidi grani

    Domani, nell’alba, l’allodola: mi avrai lasciato per sempre.

 

  • Di Natale
    Dai tuoi vetri la neve riposa sui monti,
    Tintinnano al cuore quieto campanelli di slitte.

    Caldo al sole nella lana il tuo seno bambino
    Senza amore riposa: dunque fu facile, dimmi,

    Tornare là, dove al mondo eravamo soli, dove
    Posano bianchi i campi di giovinezza?

    Ah non si crede soli, ma insieme, alle anime nuove:
    Tu con i miei pensieri, io con la tua bellezza.

    Così delle mie ore avare cresce il tuo giorno lungo
    Dove obbediente aspetti senza più ansia altra vita

    Né sai ch’è il mio verso a recare nel pomeriggio antico
    Un nastro di velluto alle tue dita.

 

  • Di Porto Civitanova
    Qui mi condusse il lungo
    Vaneggiare degli anni
    Che ora lieto ora triste e sempre invano
    Come un fanciullo mi volgeva.
                                                         I tempi
    Passati, i tormentosi giorni, qui
    Non mi dolgono più; nuova discende
    Ogni immagine e quieta.

     

    E m’addormenta con soave suono
    Ogni senso la musica continua
    Dell’onde e il fiato dell’opaco mare
    Che deserto scompare oltre le nebbie.

    E deserta è la riva. I pescatori
    Hanno lasciato sulla ghiaia tutte
    Le barche e sono andati con le ceste
    Colme di pesca che brillò nel sole
    Bianco, stamani.
    Ora alle antenne si lamenta il vento.

    A questa riva mi ritrovo: stanco
    Ma non deluso; povero, ma basta
    Che mi segga sul fianco d’una barca
    A riparo dell’aria

    Sibilante, perché le mie miserie
    Dimenticando e il mio penoso andare
    Tra i volti umani,

    Come quando fanciullo oltre i miei colli
    Aspettavo bramoso il primo raggio
    Di sole, attenda ancora,
    Ma senza affanno e solo mesto, un cenno
    Un lume, un volo, una speranza, qualche
    Voce che dall’opaco mare chiami.

 

  • Di Maiano
    Ora che dai gelati alvei dei fiumi
    Ai pascoli deserti salirà
    Novembre e ai fumi ultimi delle bàite;
    Ora che il vespro eguali invetria i fuochi
    Degli astri e i lumi della nemica città.

     

    Non pregare per me felici i giorni
    Che verranno. Pietà di noi non frena
    Il vento che dall’alto
    Affanna e serra in fitta ridda i gesti
    Umani e sperderà
    Come faville attimi gli anni, guerra
    Alla esile gioia nostra, a quella
    Breve ombra che a noi educa amore.

    Altre promesse aveva autunno, entro
    Chiusi giardini, acque opache, e un’eco
    Di fonte da ninfèi d’edera. Sempre
    Parve e sparve un riposo, un alto e lieve
    Regno deluse dove un’ora esistere
    Senza rimorso. E presto ciò che avremo
    Tanto amato dovremo abbandonare.

    Viene inverno: una pena antica geme
    Dentro i macigni dei duomi potenti.
    Forse è il segno promesso – e non pregare
    Felici i giorni vili, il sonno morto
    Che ora grava la mia nemica città.
    Tutta la notte si dovrà vegliare
    Soli e vicini in ascolto
    Del passo ancora lontano.

 

  • Di Palestrina
    Dalla grata dell’orto
    La vite al muro spento.
    Tocca una foglia il vento
    Al ramo morto.

     

    Vento di novembre
    Borgo nuvoloso
    Questo nostro riposo
    Ora lo riconosco.

    Fu quando disperai
    Senza paura: fu
    Quando non chiesi più
    Nulla al suo nome.

    Non piegherà l’attesa
    Qui dove so, dove solo ritorno.
    Finché duri il mio giorno
    Anima mia contesa

    Ti resterò fedele.

 

  • Di Vallecrosia
    Anche il lampo è fioco. Crepitano le canne
    E sulla sabbia è l’orma tranquilla della pioggia.
    Chi va per le ghiaie dei greti sotto i troni disabitati
    Delle nuvole? È l’ora di entrare nelle case
    Che suonano vuote, nelle serre dove le reti
    Di novembre riposano e le falci.

     

    Qui, altro tempo, eri vicina. L’edera,
    La tua compagna, nelle vasche ancora
    Pende tranquilla. E tu schiudevi a me
    Gli orizzonti del mare, e a un cenno allora
    Migravano al crepuscolo i tuoi stormi
    Sui cori delle schiume, palpitando
    I capelli viola sulla fronte
    E la veste allo spigolo dell’anca…
    Com’è deserto il mare senza di te.
    Tuonano ai promontori le ondate e sale la nebbia
    Sulle agavi sui pini e le rose della Mòrtola.

    Ruotano piano gli usci e sopra i cardini
    Cigolano, gli atri solcano baleni.
    Ombra che il fuoco delle fascine odora
    Non più sospendi gli amanti cuori: è tardi.

    Amara volontà d’essere viva
    Per altre vie la spingi ove non oda
    Più la paura e il giorno è un’alta riva
    Sicura ove s’approda
    Fuori dei sogni dilatati errando.

    Domani sarà chiaro il litorale e le palme
    Contro le lame del turchino acute
    Sopra il Grammondo. E tu, mio autunno oscuro,
    Cadrai, breve riparo. Non sarò
    Più nulla, non avrò nelle pupille
    Che la sterile luce e gli orizzonti
    Tuoi e le fredde ultime rose, bianco
    Mare d’inverno.

 

  • Sulla via di Foligno
    Contento di me stesso: e un’altra volta
    Visto i campi, il gioco antico e tristo
    Dell’erba nuova, ripeto per nome

     

    E le cose vicine e le lontane,
    Chiuse per sempre, gesti che ritornano
    Come gracili danze d’orologi.

    (Grida, grida una voce
    Altissima il suo nome).

 

  • Tomba di Vetulonia
    Le mie dita di cenere
    Non giungono a queste pietre
    Dove la notte è stata murata
    Non alla mia scure spenta.
                                         O viandante
    È questo sasso il confine
    Che il mio alito lambisce
    Senza forza da tanto tempo.
    Chiama, liberami da questa
    Ombra che mi fa cieco!
                                          Ma tu intendi
    Solo il tuo sgomento e già riprendi
    La via e non m’ascolti.

     

    So dove tu cammini
    Come perpetua ardendo
    Dall’isole chiomate
    Vola ai campi marini
    L’estate ed i velieri
    Solcano le correnti alti ridendo.
    Vena la mia veglia il grido
    Della lodola altissima distesa
    Incontro al sole; precipita
    Sulla quaglia rappresa
    Nel solco del mezzogiorno
    Il falco; e parole
    Rade odo che sibilano
    Le reste riarse.

    Voi felici, o viventi!

    Quando fu che sospeso lo sguardo
    Tra le nuvole immobili
    E le pinete fiorite
    Un giovane scendeva alla marina
    E sulla fronte una libera gioia
    ……………………………………………..
    Poi fu la notte e i compagni
    Urlarono fra le torce.
    Nessuno è venuto a condurmi
    Sopra la barca pallida
    Che deve raccogliere i morti.
    E io sono qui sotto terra
    Che grido senza più voce.

 

  • Della Sihltal
    E quando questi giorni saranno passati
    Quando ritorneremo
    Un popolo sconosciuto avrà le case
    Il vento sarà re dei nostri luoghi segreti.

     

    Spenti sulle pareti i santi cristofori
    Dagli acanti di pietra
    Migrando le vergini al vento esili spoglie
    Di molto antiche rose.

    Dove creduto le sorde parole
    Dove sperato la trista sapienza
    Dove amato le carni sole.

    Chi abitò questa terra? Dai rotti fastigi un uccello
    Canta canta prodigi che non sono mai stati.

    (E in te era vera ogni domanda e l’affanno
    Di giovinezza che ora è solo questo
    Mormorìo di demòni ciechi al fondo
    Era docile furia era l’inganno
    Beato dove le dita custodi
    A dare pace immergervi e la fronte.
    Dove ascolti i rimorsi ora che inverno
    Ghiaccia i tuoi specchi e increspa
    Di ribrezzo le sete stridule? Dove invochi
    La tua bellezza ai visi morti folti
    Nelle muraglie, che guardano? E di me
    Di tuoi capelli solo un’orma resta
    Inquieta; e parla, là dove Arno era
    Eterno nelle sere, quella mesta
    Voce che persuadeva a non tornare).

    O voce dei deserti
    Acqua del cuore che vai nei silenzi
    Mai più torneranno per noi
    Le vie che animava l’alloro d’aprile
    Sui prati le gracili vesti, i passi nel buio
    Le notti celesti di glicine fiorentino.

    Ora gli abeti portano
    Una lampada rosa sopra i laghi
    Del nord, e noi visiteremo i vaghi
    Sentieri del letargo, al cieco palpito
    Dei tassi e della terra fonda.

    Una lampada rosa sopra i laghi
    Del nord, e i cieli morti avranno solchi
    Di gelo e i monti corone di ferro.

 

  • Vice Veris
    Mai una primavera come questa
    È venuta sul mondo. Certo è un giorno
    Da molto tempo a me promesso questo
    Dove tutto il mio sguardo si fa eguale
    Ai miei confini, riposando: e quanta
    Calma giustizia nel pensiero è in fiore
    Quanta limpida luce orna il colore
    Delle ombre del mondo. Ora conosco
    Perché mai dagli inverni ove a fatica
    Si levò questo esistere mio vivo
    M’è rimasto quel nome, che mi scrivo
    Su quest’aria d’aprile, o sola antica
    E perduta e oltre il pianto sempre cara
    Immagine d’amore mia compagna.
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